DOPO I FATTI DI PARIGI, LA CULTURA DELL’INCONTRO

Pubblichiamo in anteprima l’articolo che Giorgio Paolucci, già direttore di Dai Nostri Quartieri e oggi caporedattore centrale di Avvenire, ha scritto dopo l’incontro di Venerdì 23 Gennaio con Samir Khalil Samir.

Auditorium S. Ignazio, 23 Gennaio 2015.
Grande partecipazione all’incontro “DOPO I FATTI DI PARIGI” con Samir Khalil Samir, fondatore del centro di ricerca arabo-cristiano, organizzato dal Decanato Lambrate, Circolo Feltre, Centro Schuster e Dai Nostri Quartieri.

Cosa insegnano i tragici avvenimenti accaduti a Parigi all’inizio dell’anno? Quello che è accaduto in Francia è davvero lontano da casa nostra o potrebbe succedere anche a Milano? Come è possibile essere protagonisti di una convivenza costruttiva con chi è diverso da noi e ha messo radici tra noi? E cosa ha da dire la fede cristiana su tutto ciò? A partire da questi interrogativi il 26 gennaio si è dipanato l’incontro con Samir Khalil Samir – gesuita egiziano, islamologo di fama internazionale ,da molti anni impegnato nel dialogo con il mondo musulmano – promosso da Decanato di Lambrate, Circolo Feltre, Centro Schuster e dal periodico Dai Nostri Quartieri  – ospitato dalla parrocchia di Sant’Ignazio e al quale hanno partecipato 400 persone. Samir Khalil ha messo in evidenza l’acceso dibattito in corso all’interno dell’islam tra chi strumentalizza  la religione usandola quale strumento per l’affermazione di un potere in nome di Dio, come i sempre più numerosi e agguerriti gruppi fondamentalisti, e chi propone un’apertura alla modernità a partire dalla conciliazione tra fede e ragione, come ha saputo fare nel corso dei secoli la Chiesa cattolica.
È un dibattito che si muove a livello teologico ma si riflette anche nelle politiche degli Stati islamici, nei rapporti con l’Occidente e nelle società arabo-islamiche, fino a penetrare nelle comunità di immigrati che si sono insediate in Italia, dove chi vuole integrarsi nella società che lo ospita convive con quanti preferiscono costruire realtà chiuse e autoreferenziali. Il dibattito sulla costruzione di moschee a Milano, che in questo periodo si è riacceso, è in qualche modo “figlio” di questo confronto: la moschea è essenzialmente luogo di preghiera per persone che desiderano praticare pacificamente la loro fede, oppure rischia di diventare un centro di irradiazione di una cultura che si concepisce in opposizione all’Occidente? Replicando a quanti sostengono che “in fondo il problema sono le religioni e la loro pretesa assolutista”, Samir Khalil ha ricordato quante violenze sono state perpetrate da ideologie come il nazismo, il comunismo, il razzismo. Le religioni non sono il problema, possono invece essere la soluzione, perché ci ricordano che la verità è sempre qualcosa di più grande dell’uomo, che l’uomo non può possedere ma a cui deve aspirare.
A proposito del dibattito suscitato dalle vignette satiriche su Maometto (e non solo), è stato ricordato che la teorizzazione della libertà assoluta, senza vincoli, è un concetto malato: la vera libertà implica il rispetto dell’altro e l’esercizio della responsabilità personale.  Non basta gridare “Je suis Charlie”, come hanno fatto milioni di persone in Francia e altrove, se non si ritrovano le ragioni di una convivenza che sia fondata su valori forti e condivisi e insieme rispettosa delle differenze. “In questo senso – ha spiegato Samir Khalil – l’epoca che stiamo vivendo è una sfida per i cristiani, li costringe a interrogarsi su cosa tiene in piedi l’esistenza, su quanto sono coscienti del tesoro che hanno ricevuto e disponibili a testimoniarlo nella società”. La fede è un soprammobile o il motore dell’esistenza? Ferma restando la ferma condanna del terrorismo e della violenza compiuta in nome di un Dio ridotto a strumento di potere, i credenti sono dunque chiamati a un lavoro di riappropriazione della propria identità e della propria storia. Ma questo non significa guardarsi allo specchio, e neppure usare l’identità come un’alabarda da impugnare per combattere contro “il nemico”. Significa invece diventare capaci, a partire dal tesoro ricevuto, di incontrare chiunque, nella convinzione che nel cuore di ogni uomo abita un desiderio di bene, di verità e di giustizia, che per non degenerare deve continuamente essere educato. È la “cultura dell’incontro” di cui parla Papa Francesco nella “Evangelii gaudium”, e che continua a riproporre come risorsa per la costruzione di una convivenza a misura d’uomo.

 Giorgio Paolucci