IL CARCERE, UN LUOGO SENZA MASCHERE. INTERVISTA A SILVANA CERUTI, AMBROGINO 2012

L’esperienza di Silvana Ceruti, cittadina di zona 3, da vent’anni animatrice del Laboratorio di Lettura e Scrittura del Carcere di Opera, attività per cui il Comune di Milano le ha riconosciuto l’Ambrogino d’Oro nel 2012. 

Silvana Ceruti, animatrice del Laboratorio di Poesia e Scrittura Creativa e Pino Carnovale, che frequenta il laboratorio da 17 anni. Foto M. Lazzati
Silvana Ceruti, animatrice del Laboratorio di Poesia e Scrittura Creativa e Pino Carnovale,          che frequenta il laboratorio da 17 anni. Foto M. Lazzati

Silvana, come è iniziata la tua attività in Carcere?

E’ iniziata per caso, non è ambiente che ho scelto come volontariato, ma mi hanno chiesto nel 1994-95 un corso di aggiornamento sulla lettura per “persone in difficoltà”…Di professione ero insegnante, inoltre tenevo corsi di aggiornamento per insegnanti. Quello che mi avevano proposto era invece rivolto a persone detenute nel carcere di Opera. Ho detto sì perché l’esperienza a livello umano mi interessava molto, ma sono andata con molte ansie su come potevo presentarmi. Per 2 anni è stato un corso sulla lettura che per me è diventato subito un corso di lettura e di scrittura, penso infatti che per sapere leggere veramente bene, bisogna sapere anche scrivere. Ho così cominciato a portare libri, abbiano osservato le differenti tipologie dei titoli e inventato titoli per possibili libri;   abbiamo letto recensioni di libri e scritto delle recensioni per libri immaginari… Quando il corso è terminato, le persone detenute mi hanno chiesto: “ Adesso che non ti pagano non tornerai più, Silvana?”. Ho risposto che avrei continuato ad andare perché si era formato come una piccola comunità di persone che interagivano con sincerità, senza “maschere”. Sono passati vent’anni, e la comunicazione è sempre intensa,  mai banale. Scriviamo soprattutto poesie, che permettono una conoscenza reciproca profonda. Sono molto fiera di “non aver scelto” il luogo dove svolgere il mio volontariato, perché mi viene sempre in mente ciò che rispondeva Madre Teresa di Calcutta a chi le diceva “Cosa crede di fare, di salvare il mondo aiutando le poche persone moribonde che riesce ad accostare?” E lei: “no, io mi occupo soltanto di quelli in cui inciampo”. Ecco, io credo di essere “inciampata” nel carcere. Alcuni mi hanno detto “ma perché non vai in ospedale o altrove?” ma ho incontrato questa situazione, non altre.

Perché la lettura e la scrittura sono importanti per il detenuto?

La lettura, la scrittura e tutta le attività culturali sono importanti: la poesia, ma anche la pittura, la musica, il teatro… perché sono tutte attività che aprono lo spirito, la mente. Si dice sempre, ed è vero e giusto, che una persona detenuta deve imparare un lavoro per ritornare nella società. Questo perché la maggior parte delle persone provengono da ambienti degradati e alcuni non hanno avuto tempo per una formazione professionale… ma questo non è sempre vero: molti di loro hanno anche avuto esperienze lavorative. Quello che a loro credo sia mancato è proprio l’apertura alle cose belle, dello spirito. Apertura a cose che possono dare dei sogni, delle ispirazioni, dei valori: un’apertura degli orizzonti che non va solo verso ciò che è utile, ma verso ciò che è bello e fa crescere. Sicuramente la lettura è un percorso di ascolto, saper leggere e comprendere ciò che l’altro vuole dire anche tra le righe, come messaggio nascosto. Ma ascoltare veramente è molto difficile: saper leggere vuol dire saper ascoltare in profondità. E così come dici un messaggio, devi saperlo comunicare. Molti di loro ricorrono alla violenza perché non sanno esprimersi con la parola. Ho in mente una persona, vissuta fin da bambino in situazione di emarginazione che reagiva in modo violento. Con il laboratorio ha imparato a sostituire la parola all’azione violenta.

Se l’aspettava che delle persone scoprissero da adulte la poesia e utilizzassero questo tipo di testo nella propria esistenza?

Sì, so che è possibile imparare ad esprimersi anche con la poesia, che è un tipo di testo come un altro. La poesia però chiede di fare un viaggio dentro se stessi, di fidarsi di sé, si possono scoprire sentimenti ed emozioni che normalmente non riconosciamo e lasciamo inespressi. Quando una persona del laboratorio legge una poesia che ha scritto, mi sembra ogni volta di assistere a un miracolo, come quando vedevo un bambino di prima elementare che scriveva per la prima volta. Conoscevo il percorso che lo aveva portato a scrivere, glielo avevo insegnato io, ma ogni volta mi stupivo. Ogni poesia è una rivelazione, ogni volta. E’ una cosa molto potente, molto particolare, che uno fa dentro se stesso. E bisogna poi avere un linguaggio per esprimere ciò che si sente dentro. In questo senso io fornisco un aiuto, ma i testi sono loro, le ispirazioni sono loro.

Come dobbiamo immaginarci l’esperienza del laboratorio? Una lezione frontale?

No, assolutamente: i nostri incontri non hanno lo scopo di insegnare qualcosa. Non c’è nulla di scolastico negli incontri. La vera finalità del Laboratorio è quello di fare “un pezzo di vita insieme” tra persone “dentro” al carcere e persone “fuori”. Così una persona detenuta può non scrivere niente, può non essere interessata alla poesia – che è diventato il tipo di testo che più frequentemente leggiamo e scriviamo – ma può venire per stare insieme, perché si trova bene. Per me è raggiunto lo scopo del  Laboratorio quando vedo che si sta bene insieme, gioisco quando vedo che una persona si interessa dell’altra. Certo vado con delle proposte di attività, ma molte volte sono loro a propormi cose che hanno pensato, scritto, cominciato a maturare. Ci mettiamo attorno a un grande tavolo e condividiamo ciò che abbiamo letto e scritto. Ogni volta mangiamo insieme qualche cosa: biscotti, della frutta o a Natale del panettone che porto, perché il mangiare conviviale crea piacere. Il piacere del cibo si trasmette alla lettura, alla scrittura, alla poesia…

Da 20 anni vivi una parte significativa del tuo tempo in carcere…che cos’è per te il carcere?

Il carcere è brutto, è per definizione divisione. E quello che separa non è bene. D’altra parte bisogna tutelare l’esigenza di difesa da parte delle persone che hanno ricevuto gravi offese. Il carcere dunque è un mezzo di difesa. Ma di difesa allontanando l’altro… Forse abbiamo gli strumenti oggi per pensare a mezzi nuovi di punizione che permettano anche una “restituzione” REALE alla società che ha ricevuto del male, che porti a far compiere atti di bene a chi ha compiuto atti di offesa. Una persona alla quale è tolta la libertà ed è separata dagli altri è una persona che non può crescere, che diventa soltanto isolato, senza possibilità di scegliere. Così dove stanno il recupero e la restituzione? Non saprei dire concretamente cosa si debba mettere in atto al posto del carcere, però posso dire che così com’è oggi il carcere non è funzionale né alla crescita interiore delle persone che sono dentro, e quindi al loro recupero, né alla restituzione di bene alla società che è stata ferita. Inoltre le strutture carcerarie sono un grosso costo. Credo che bisognerebbe ripensare tutta la soluzione giuridica. Bisognerebbe creare meno infelicità nelle persone recluse e più benessere, e sicurezza di non patire nuovamente offese con la recidiva delle persone quando escono dal carcere, alla società. Come ho già detto il carcere è un luogo di rottura dei rapporti. Ecco cosa facciamo nel Laboratorio: creare legami. La maggior parte dei carcerati viene da rapporti familiari lacerati e talvolta anche i rapporti positivi che esistevano vengono meno per la difficoltà della famiglia con la persona in carcere, per la fatica, per la vergogna… Il Laboratorio, per le persone che lo frequentano, è un luogo di libertà, uno dei luoghi dove anche io mi sento più libera, perché non c’è giudizio, perché c’è un rapporto di fiducia reciproca.

Ho incontrato Silvana Ceruti a casa sua, in zona 3. Sono uscito arricchito per la profondità dei suoi racconti, in cui ogni parola ha un peso specifico, un significato particolare, una storia alle spalle. Nulla è fuori posto. Questi racconti sono diventati libri. Pagine scritte – forse qualcuno penserà sia cosa strana – non per testimoniare o raccontare l’esperienza. Pagine non di “testimonianza”, come per rilegare vite e darne una forma affascinante, come una storia di fatica e di riscatto insieme, ma vere e proprie pagine di libertà e spazi aperti. E’ contradditorio –lo so-: come può essere un libro sul carcere, luogo di reclusione per eccellenza,  un libro capace di aprire, sconfinare, allargare gli orizzonti? La verità è che il carcere è un luogo di contraddizione, dove la morte e la vita si intrecciano, dove la solitudine e la conoscenza di sé interagiscono con durezza e franchezza allo stesso tempo.